Uja di Ciamarella

Viaggio sulla parete nord della Ciamarella

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Sì, viaggiare. E se vogliamo andare in montagna, noi che viviamo nel bel mezzo della pianura (o poco più su), ci tocca. Ma tutto sommato ci piace. E prima ancora che in macchina, viaggiamo con la testa! Traversate delle Alpi che nemmeno Walter Bonatti, corse in salita e in discesa da pareti difficilissime e lontane più veloce di Ueli Steck. Di solito siamo io e Federico a esibire le proposte più disparate, già dal giovedì. Poi arriva il Paolo o il Pietro di turno a rilanciare. Mario tende ad assecondare, gli basta andare in montagna le poche volte che può. E quando già siamo sul punto di giocarci a dadi se piantare la tenda sotto la nord del Cervino o su una cengia della val di Mello, arriva puntuale il parere più autorevole ed atteso: quello di Alberto, non a caso il più anziano, che tende a rimettere tutti con le scarpette o i ramponi per terra.

E alle porte di un bel weekend lungo di fine aprile è andata proprio così: dalle Calanques al Monviso, dalle Alpi Giulie al Gran Zebru, già sentiti un paio di rifugi, già sondati i bollettini e i resoconti degli alpinisti feriali… ecco che Alberto viene fuori con un’Uja di Ciamarella che nessuno aveva considerato. Forse perché tre di noi ci sono già stati, forse perché siamo attratti da salite più altisonanti, ma la proposta sembra mettere d’accordo un po’ tutti.

Io in particolare, sfogliando l’atlante stradale – parto spesso da lì per decidere dove andare in montagna! – avevo già da tempo adocchiato un angolino di Piemonte, una valle lunga senza nemmeno una strada, soltanto una linea blu con scritto a fianco Stura di Sea; unico segno umano un puntino nero, chiamato Bivacco Soardi; e tutt’attorno montagne, altissime, e la più alta di tutte – fiancheggiata da chiazze azzurre decifrabili come ghiaccai- era proprio l’Uia di Ciamarella.

Eccoci dunque a Forno Alpi Graie, 1200 metri: aria un po’ sgangherata da paese di pionieri, da paese dove finisce la strada, la civiltà, e inizia la montagna. Le foglie sono già sbocciate, i prati ormai verdi, ma dietro le quinte rocciose che delimitano l’accesso al Vallone di Sea, si intuisce che l’inverno lassù ancora spadroneggia.

Ci addentriamo nel vallone, gli zaini pesano ma la curiosità di vedere cosa ci sarà dietro l’angolo ci fa procedere con passi spediti e leggeri. Fin da subito notiamo ai piedi dei canali conoidi di valanghe immani, precipitate da chissà dove, e presto dovremo affrontare pure loro con passi leggeri e spediti, per non sfondare né inciampare su queste grandi pietraie… di neve.

Prima della neve però incontriamo le antiche malghe di Gias Balma Massiet, nobili nella loro semplicità architettonica, con una caratteristica volta a mezzaluna sulla facciata: un tempo ricovero di pastori, ora che la civiltà è scesa più a valle, sono occupate dagli stambecchi. Mentre ci avviciniamo ne vediamo da lontano uno “di guardia” nel piazzale, e appena arriviamo gli altri escono tutti frettolosamente dalla lunghissima stalla!

Li osserviamo a bocca aperta mentre si lanciano a capofitto su per le pareti laterali del vallone, superando quasi di corsa cenge espostissime e placche dall’apparenza liscia. A quanto pare ben prima degli anni 70 e 80, quando personaggi come Gianpiero Motti e Giancarlo Grassi scoprirono alpinisticamente il vallone, esisteva qui una fiorente scuola arrampicatoria di ungulati!

Dopo le malghe il vallone compie una secca svolta verso destra: cascate altissime, con alla base coni di neve, precipitano orizzontalmente dalle pareti, spostate dal vento. E sono proprio il vento e l’acqua gli unici elementi a rompere il silenzio, oltre alle nostre voci… ma oggi chiacchieriamo un po’ meno: forse è il luogo a lasciarci a bocca aperta, oppure, per dirla con meno retorica, preferiamo risparmiare il fiato!

Dopo la svolta guadagniamo quota e iniziamo a pestare soprattutto neve. Compare la gigantesca parete nord dell’Albaron di Sea, mentre alla nostra sinistra canaloni di cui non si vede la fine hanno scaricato una metropoli di blocchi di neve e pietra. Quelli caduti nella grande frana dell’inverno 1999/2000 si riconoscono bene al centro della piana, come grattacieli isolati di periferia.

Eccoci finalmente all’Alpe di Sea, che raggiungiamo con un caratteristico, esposto ponte di legno. L’alpeggio si trova in posizione riparata, ai piedi di un masso che somiglia più a una montagna. Anche qui probabilmente stanziavano stambecchi, ma stavolta si sono dileguati ben prima del nostro arrivo: li vediamo di nuovo dare spettacolo sulle pareti antistanti.

Con un nuovo strappo in salita raggiungiamo il grande Piano di Sea, dove il paesaggio si fa più dolce, orizzontale, in pieno contrasto con la parete sempre più vicina dell’Albaron: la sua ombra possente avanza avvolgendo il piano; ne restano fuori, ma ancora per poco, le baite ordinatissime di Gias Nuovo: ne approfittiamo per fermarci a riprendere le forze godendo del tepore del sole, che qui sta battendo i suoi ultimi raggi di oggi.

Riprende la salita, ripida e ora anche più esposta: stiamo superando il “Passo di Napoleone”, forse la strettoia più evidente del vallone, che qui è letteralmente schiacciato sotto l’Albaron di Sea. Usciti dal tratto ripido, il vento si fa più potente, e la vista del bivacco – ancora piuttosto lontano – ci rincuora. In luoghi tanto selvaggi, trovare un avamposto umano suscita precise attese: sappiamo e pretendiamo che il bivacco sia accogliente, come se ci fosse dovuto dopo tanta fatica… Un po’ come dei turisti che dopo aver cercato a lungo con il navigatore l’albergo che hanno prenotato, leggendo recensioni su recensioni, vi entrano con aspettative smisurate!

E il bivacco Soardi – Frassero lo è davvero accogliente. Quasi in proporzione inversa alla scontrosità del vallone in cui si trova. All’interno troviamo finalmente riparo dal vento, e dopo esserci stanziati, ci rendiamo conto di quanto faccia freddo fuori! Meglio accendere i fornelli: andiamo a un vicino rio per rifornirci d’acqua e cominciamo a cucinare, sfogliando le guide e le relazioni che abbiamo con noi.

E’ chiaro che andare domani sulla Ciamarella con questo vento non sarebbe fattibile. Alberto insiste: le previsioni parlavano di una diminuzione del vento per la domenica, ma le raffiche continuano a infrangersi contro il bivacco come onde, e con il calare della sera e poi della notte non accennano a diminuire. Ci mangiamo e beviamo un po’ sopra: abbiamo portato fino qui una bottiglia di buon rosso, che in quattro – Alberto fa sempre sciopero – finisce alla svelta, ma riesce comunque a rallegrare un po’ gli animi.

Quasi mai riesco a dormire bene nei rifugi e nei bivacchi… chiudo gli occhi, ma la testa continua a viaggiare, più o meno vigile, verso l’attacco della salita del giorno dopo, poi lungo la salita, poi in vetta, in discesa, a casa, nei giorni seguenti quando starò sistemando le foto e pensando a come raccontarla. Se poi ho un po’ mangiato e bevuto – e in genere a cena lo faccio – prendere sonno diventa ancora più complesso.

Quando proprio riesco ad addormentarmi, ovviamente i sogni seguono a ruota i pensieri: e così ecco la sveglia che suona, oppure che NON suona mettendo a repentaglio la giornata: Alberto che dice << non si fa>>, Federico che insiste per fare, Paolo che è disposto ad andare su anche da solo, Mario che mi chiede di lasciargli le chiavi della macchina… alla fine mi rendo conto che è un sogno perché sento russare.

Ma stanotte non ci riesco neanche per sbaglio ad addormentarmi, e credo proprio lo stesso valga per gli altri quattro compagni di avventura. Il vento infatti continua a schiaffeggiare le pareti di lamiera, sembra porti con sé pure un po’ di neve e piccoli sassi… se qualcuno stesse russando, forse non lo sentiremmo nemmeno. Le ore passano, i pensieri si inseguono, alla fine arrivano le 4 e la tanto agognata sveglia – quella di Paolo – suona.

Tutti sembrano fare finta di niente: il vento non è affatto calato, nessuno ha voglia di abbandonare il caldo dei sacchi per avventurarsi fuori nella neve. Il cellulare continua a ripetere il suo motivetto, inesorabile, ogni dieci minuti. Ormai saranno passate le 5, forse sono già quasi le 6. E’ Paolo a rompere gli indugi, non appena le raffiche sembrano dare un minimo accenno di tregua. Io lo seguo e accendo il fornello per il tè: uno dopo l’altro, più o meno fiduciosi, tutti siamo seduti al tavolo a sorseggiare qualcosa di caldo. Alla fine non è così tardi… forse qualcosa riusciremo a combinare!

Le colazioni in bivacco sono sempre un po’ scomode e fanno perdere un sacco di tempo, anche se si è in due… figuriamoci in cinque. Forse è colpa nostra che non siamo abituati… fatto sta che quando finalmente mettiamo la testa fuori dal bivacco sono le 6 passate, e il cielo inizia già ad essere chiaro sopra la piramide dell’Uia di Mondrone. Noi però si va dalla parte opposta, lungo il proseguo dell’infinito vallone, che ormai somiglia sempre di più al letto di un ghiacciaio.

Quasi subito indossiamo i ramponi, e passo dopo passo guadagniamo quota sul fondo nevoso ben spazzato dal vento e baciato dai primi raggi del sole. Il vallone alterna tratti pianeggianti a lunghe impennate, sempre fiancheggiato da grandi pareti e canaloni, con gli immancabili resti delle valanghe. Dopo un’ora molto comoda di faticosa camminata, col vento non proprio a favore, finalmente vediamo il ghiacciaio vero: il Tonini, con la cascata del torrente glaciale che si innalza come una torre azzurra… e alle sue spalle, sbuca la tanto agognata parete nord della Ciamarella!

Io e Mario stiamo un po’ accusando la stanchezza, e ci fermiamo a mangiare qualcosa al sole mentre gli altri si avvicinano alla base del ghiacciaio. Alla fine decidiamo di legarci con Paolo; Federico e Alberto formeranno l’altra cordata salendo per primi. Sul pendio che sostiene il ghiacciaio facciamo abbastanza fatica, ci tocca fermarci a spesso a prendere fiato: ma vediamo che anche la cordata di testa tutto sommato non va così forte!

Ma quando finalmente arriviamo nel plateau principale, con la parete che finalmente si vede tutta intera, e mentre studiamo da quale linea salire, l’adrenalina comincia a soppiantare la fatica! Il vento ormai si è calmato, e decidiamo di affrontare la parete al centro, lungo la via Ferrari. Lasciamo guidare la nostra cordata a Paolo, che dei tre è quello che si muove con più sicurezza e oggi sembra decisamente in forma.

Fede e Alberto superano la terminale in conserva, poi alla base del primo salto ripido iniziano a procedere a tiri. Noi li seguiamo: dopo il primo passaggio il pendio procede meno ripido, ma sempre costante. La neve non è ghiacciata, troviamo già le impronte dei due davanti e riusciamo a procedere bene alternandoci e facendo sosta su fittone e piccozza. Queste pendenze non ci mettono in difficoltà, abbiamo salito canali e cascate per tutto l’inverno… ma qui è l’ambiente a mettere in soggezione.

Presto raggiungiamo il punto chiave della salita: una fascia rocciosa sbarra la continuità del pendio. Federico non la affronta direttamente ma compie un lungo traverso verso destra, fino a un punto in cui sembra più abbordabile. Fa sosta e parte Alberto: lo vediamo armeggiare con un friend fra un accumulo di neve e le rocce, il passaggio gli dà un po’ da fare ma alla fine riesce a proteggersi bene e supera il secondo traverso a sinistra: grande!

Ora tocca a noi… Dopo il primo traverso, Paolo decide di non salire vicino alle rocce, ma di traversare direttamente a sinistra sotto l’accumulo di neve. Io e Mario lo osserviamo con ansia… Forse era meglio aspettare che partisse anche Fede e sfruttare la sua sosta su friend? Forse era meglio che Paolo seguisse il percorso di Alberto?

Lo vediamo testare con attenzione i passi: ora le pendenze non sono più di quelle dove si sale slegati in tranquillità, con soste su neve che sono giusto un pro forma… i ramponi grattano la roccia sotto la neve, forza Paolo, un altro passo e sei fuori!!! Con la sua consueta calma e freddezza, il Bernardi supera zitto zitto il traverso, ma prima ancora di essere sul facile ci consiglia di seguire le orme di Alberto, facendo saltare in qualche modo la corda sopra l’accumulo di neve.

Aspettiamo con ansia il suo arrivo alla sosta, che gentilmente la cordata di testa ci ha lasciato pronta con un chiodo… <<Venite pure!>> Finalmente possiamo partire. Mi addosso io il compito un po’ ingrato di fare saltare la corda, ma ci riesco senza espormi più di tanto. C’è poco da dire: il buon Piazza ha trovato il passaggio più facile! Ci tornano i brividi invece a vedere le orme di Paolo appena sotto…

Eccoci di nuovo tutti insieme: forse il più è fatto, ma la parete non è ancora finita, e ormai indietro non si torna! Un altro paio di tiri e finalmente raggiungiamo uno dei due grandi affioramenti di ghiaccio che sappiamo trovarsi poco sotto la vetta. Alberto sale, riesce pure a mettere una buona vite: sopra la sua testa ormai soltanto il cielo azzurro, mentre alle nostre spalle i giganti di ghiaccio e roccia iniziano a sbucare uno dopo l’altro. Che giornata fantastica!

Ormai le gambe marciano un po’ per inerzia… quando capisci che la fine è vicina, rimonta la stanchezza, inizia a venire fame, ti senti già fuori… insomma è un momento sempre delicato. Riusciamo comunque a tenere alta la concentrazione e piano piano le pendenze si addolciscono… è fatta! Alla nostra sinistra la cresta est, via di discesa per il bivacco Soardi, si presenta affilata e un po’ minacciosa… qualcuno ci è passato, e vedere le impronte un po’ ci rincuora.

Sappiamo che c’è la possibilità di scendere anche dalla via normale fino al rifugio Gastaldi e al Pian della Mussa… è una possibilità di cui abbiamo tenuto conto nel caso si facesse tardi o la cresta si rivelasse più complicata del previsto. Ora sono quasi le 15, un po’ siamo stanchi ma ce la possiamo fare! Così lasciamo le corde all’inizio della cresta e saliamo velocemente verso la vicina cima.

Sappiamo che sarebbe meglio farlo alla fine della discesa, ma non resistiamo a stringerci subito la mano… è stata una gran bella salita, che fino alle prime ore della mattina a nessuno di noi era sembrata fattibile. Dopo 5 ore in parete, sfruttare pochi minuti di pausa non è facile: ci sono tante cose da fare: bere, mangiare, scattare foto, magari provare a mandare un messaggio a casa, fare un bisognino… insomma il tempo vola, e non riesci mai a goderti questi bei momenti fino in fondo. Io personalmente amo riviverli quando li racconto!

Ma eccoci di nuovo in cammino: la discesa da Pian di Mussa è stata scartata all’unanimità: troppo complesso tornare l’indomani al bivacco, anche se è un giorno di ferie che potremmo sfruttare. Poi la Cresta Est sembra tanto bella! La affrontiamo legati in conserva, a parte Mario che nella prima parte più facile preferisce restare slegato. Il primo tratto orizzontale è impressionante: la nebbia gioca a rimbalzare sulle cornici di neve, sotto non vediamo l’abisso, attorno abbiamo tutte le Alpi Occidentali.

Un tratto esposto e un po’ delicato di roccia ci spinge a legarci tutti: sarà l’ostacolo maggiore della discesa. Riprendiamo a camminare sul filo della cresta, ora più facile: superiamo il Pan di Zucchero e in breve ci ritroviamo sopra il ghiacciaio dell’Albaron di Sea, che raggiungiamo scendendo un crestone sfasciumoso seguito da un facile canale.

Siamo ancora molto in alto rispetto al fondo del vallone di Sea: una via di discesa che sembra invitante viene scartata, sia da Alberto che ricorda bene la relazione sia da Paolo che ha salvato la traccia GPS della discesa: nuove tecnologie e metodi tradizionali uniscono le forze, oggi siamo informatissimi! Ormai siamo fuori dalle difficoltà: un lunghissimo pendio ci conduce ai piedi del Ghiacciaio Tonini, dove il vallone di Sea si biforca e dove ritroviamo le nostre tracce di quasi 10 ore fa.

Raggiunto il bivacco ci rifocilliamo a dovere, Mario si stende direttamente sul cemento ma ci mette poco ad entrare… anche se questo aprile somiglia a giugno, è quasi sera e il freddo si fa sentire! Una spazzata veloce e ci tocca rimetterci a scendere con gli zaini e le gambe appesantiti. Ora le distanze si dilatano… Alberto accelera, vuole raggiungere le zone svalangate prima che venga buio. Incontriamo due ragazzi che salgono, puntano all’Albaron di Sea per domani… noi domani puntiamo solo a dormire, ma per ora siamo quasi certi che saremo ancora in macchina, nelle prime ore di domani. Per certe salite un oggi solo non basta!

La discesa è come ce l’aspettiamo… interminabile, faticosa per la neve poco portante, nemmeno troppo facile da trovare. Sta inoltre calando la nebbia, insieme alla sera, per cui sappiamo che il buio ci coglierà un po’ in anticipo… alla valanga più grossa ritroviamo Alberto con la frontale: io riesco finalmente a dire che sono vivo a chi aspetta mie notizie da casa.

Superate le valanghe, la mia più grossa preoccupazione rimangono gli stambecchi nelle baite di Gias Balma Massiet… saranno infastiditi dal nostro passaggio notturno? Alla fine tutto tace, superiamo il fiume senza prendere cornate, fame e sete ci spingono verso la macchina ancora lontana. Arriviamo che sono le 21 passate! Dopo la consueta e stasera insolente apparecchiata di materiale e vestiti sotto il baule, le acrobazie per caricare tutto, eccoci finalmente col sedere sul morbido!

A Chialamberto ci imbattiamo in un ristorantino dove ci servono da mangiare nonostante l’ora un po’ tarda… ci sono foto di Grassi e Motti, facile pretesto per scambiare quattro chiacchiere con la proprietaria. Ci racconta che conosceva bene entrambi, si fermavano spesso da lei anche a dormire, specialmente Gianpiero. Sarebbe bello starla ad ascoltare ancora a lungo, magari fermandoci pure noi a dormire… ma non possiamo, ci tocca un lungo viaggio notturno in cui cederò pure al lusso di chiedere un cambio alla guida. Sì, viaggiare…

Luca

-> IL VIDEO DELLA NOSTRA SALITA

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