Non badavo alle montagne intorno né ai due mondi estranei tra loro che precipitavano sotto di me: esisteva soltanto la roccia che avevo davanti agli occhi, ed esistevano le mie mani e i miei piedi. Finché raggiunsi un punto da cui non si poteva più salire, e solo per questo mi resi conto di essere in cima.
Un pomeriggio come tanti, in una libreria di Parma: entro con le idee già chiare, salgo subito le scale, giro l’angolo dello scaffale dei libri da montagna e… chi ci trovo? Federico, patron di Red Climber: mai incontrato per caso prima d’ora fra quattro mura di Parma che non fossero la sede del Cai o la palestra Pareti! Mi chiede quale libro cerco: «Le otto montagne» rispondo. Suggerisce di andare a vedere al piano di sotto, e senza nemmeno bisogno di scomodare la commessa, ecco a due passi dall’ingresso il romanzo vincitore dell’ultimo Premio Strega: in cima a una colonna di suoi gemelli, tutti nuovi con tanto di plastica attorno.
La copertina rinfresca subito la bollente giornata di fine luglio. Forse è la prima volta che acquisto un best seller o presunto tale; in genere preferisco libri o guide che restano nascoste in un angolo degli scaffali per lungo tempo, nella speranza di dare una mano a quell’editoria di nicchia… Federico si offre di prestarmi la copia che ha già in casa, ma non mi lascio tentare: ben venga che un libro sulla montagna sia in vetta alle classifiche, darò anch’io il mio contributo!
In realtà definire l’ultimo lavoro di Paolo Cognetti un “libro sulla montagna” è riduttivo. Certo, gran parte della storia è ambientata tra boschi, vette, alpeggi e piccoli paesi in alta quota, dalle Alpi Occidentali all’Hymalaya passando per le Dolomiti; ma la montagna non è altro che il palcoscenico dove l’autore riesce a fare emergere l’anima dei suoi personaggi, dove i rapporti fra loro sono più autentici e complessi.
Le otto montagne racconta di una famiglia e di un’amicizia, entrambe nate in montagna. Le città (grandi città, come Milano e Torino) sono soltanto uno sfondo appena accennato, così come quello delle montagne bianche dietro i loro grattacieli nelle giornate non abbastanza terse per distinguerle bene. A Milano è nato Pietro, protagonista e narratore, ma i suoi genitori – sposati ai piedi delle Tre Cime di Lavaredo – provengono dalle campagne del Veneto, e appena ne hanno l’occasione si mettono in fila per fuggire dalla grande città dove lavorano.
Nei primi anni Ottanta la famiglia inizia ad andare in affitto in una piccola casa di Grana, un paese non ben definito sulle valli vicino al monte Rosa. Qui Pietro, ancora bambino, inizia a seguire il padre Gianni nelle sue lunghe camminate, vere e proprie gare con se stesso e gli altri escursionisti: sono questi i pochi momenti in cui i due hanno modo di stare insieme. Ma a parte qualche rara eccezione, il rapporto fra i due è unilaterale: come in una cordata dove tira soltanto un componente, così Gianni decide parla critica, mentre Pietro ascolta timidamente senza protestare.
A Grana vive anche l’altro protagonista della storia, sicuramente il personaggio più potente e intrigante: Bruno Guglielmina, l’unico ragazzino rimasto nel paese. Tra lui e Pietro, dopo la normale diffidenza fra due bambini dall’indole solitaria, nasce un’intesa solida, un’amicizia destinata a durare estate dopo estate: le esplorazioni lungo i fiumi e i sentieri dimenticati, le scorribande negli edifici abbandonati e le vecchie miniere, tutti i segreti di una valle rimasta ai margini del progresso – che Bruno ama e conosce profondamente – diventano il fondamento del loro legame.
Lo annusai, per la verità prima di vederlo, perchè aveva addosso lo stesso odore di stalla, fieno, latte cagliato, terra umida e fumo di legna, che per me da allora è sempre stato l’odore della montagna, e che ho ritrovato in qualunque montagna del mondo. Si chiamava Bruno Guglielmina.
Pietro è quello che va, Bruno quello che rimane. Entrambi hanno un rapporto non facile coi loro padri, specialmente Bruno, ed entrambi a un certo punto della loro vita romperanno con loro per proseguire da soli. Passata l’adolescenza, Pietro per lungo tempo non torna più a Grana, trasferendosi a Torino. Quando però suo padre viene a mancare, torna a Milano e anche a Grana, dove gli è stata lasciata in eredità una misteriosa proprietà a più di 2000 metri.
Lassù ritrova il suo amico Bruno, diventato un esperto muratore, e insieme a lui riesce a ripensare – e in qualche modo ricucire – i rapporti con il padre, interrotti bruscamente quando aveva solo 16 anni. Lo ritrova seguendo i suoi passi e trovando le sue firme sui libri di vetta di montagne dimenticate attorno a Grana. La storia si evolve con il progetto un po’ visionario di Bruno di gestire un alpeggio in quota insieme alla sua nuova famiglia: non avrà vita facile, ma fino all’ultimo non abbandonerà la sua montagna, mentre Pietro troverà la sua strada nel lontano Nepal. Si ritroveranno insieme in un finale dal sapore simbolico.
Le otto montagne è un libro che si legge piacevolmente in fretta, grazie allo stile sobrio e diretto di Cognetti: pochi aggettivi, descrizioni che non cadono mai nella retorica ma presentano le cose nude e semplici, ognuna con il loro nome: nomi che la lingua della montagna, il dialetto, spesso connota più efficacemente rispetto all’italiano, lingua della città.
Siete voi di città che la chiamate natura. E’ così astratta nella vostra testa che è astratto pure il nome. Noi qui diciamo bosco, pascolo, torrente, roccia, cose che uno può indicare con un dito. Cose che si possono usare. Se non si possono usare, un nome non glielo diamo perché non serve a niente.
10 DOMANDE +2 ALL'AUTORE, PAOLO COGNETTI
di Federico Rossetti
1. Grana: abbiamo spulciato cartine della zona intorno al monte Rosa e dell’Ossola senza successo, fino a convincerci che si tratta di un luogo di fantasia. Ma c’è un paese, una valle reale a cui ti sei ispirato?
Sì, il paese si chiama Graines. Trovo molto divertente che, nell’epoca dell’onniscienza digitale, sia sufficiente tradurre un toponimo dal francese all’italiano per fregare qualsiasi motore di ricerca. Mi dà speranze per il futuro. Il luogo è come l’ho descritto: un vallone laterale della Val d’Ayas, in cui anche le domeniche d’agosto non incontri nessuno. Una montagna minore che sta subito dietro a quella famosa, basta un bivio e qualche tornante per trovare la solitudine. Anche questa mi sembra una bella notizia.
2. La vicenda di Bruno e soprattutto il finale della storia sembrano farci capire come la scelta di vivere ad oltranza in montagna, ‘in solitudine’, non sia possibile e come la forza distruttrice della montagna vince sempre sull’uomo. Pensi che occorra trovare un giusto compromesso tra città e montagna, tra il coltivare i rapporti con le persone e seguire il ‘proprio io’ e come ‘la sconfitta del montanaro Bruno’ testimoni come non si possa vivere di sola montagna?
Il destino di Bruno è quello del suo popolo, in questo senso non è la montagna a essere distruttrice ma la città. È la città che ha colonizzato e distrutto la civiltà alpina. Bruno prova a fare l’eroe, l’ultimo montanaro, e ne paga le conseguenze. Questo non c’entra con una scelta di solitudine che possiamo fare io o te.
3. Dopo la morte del padre, Pietro scopre un lato del genitore che non conosceva. Ripercorrere gli stessi sentieri sembra però avvolgerlo da un’amara malinconia. È forse un simbolo delle occasioni perse, del tempo sprecato, di quello che avremmo potuto fare e condividere con le persone amate, dei rimpianti che ce ne accorgiamo sempre quando è troppo tardi?
Sì, c’è un gran senso di rimpianto nel non aver conosciuto davvero le persone che avevamo più vicine. Sono proprio quelle che ci eludono, diceva un libro che mi sta molto a cuore. Le persone che amiamo di più e non riusciamo a comprendere né a salvare.
4. Nel libro spiccano le figure di alcune donne. Forse la meno presente è la silenziosa madre di Bruno. La sua figura appare però particolarmente curiosa ed è definita dallo stesso Bruno una ‘montanara’ ma che a sua differenza ha il ‘problema’ di essere donna e di essere vista come una pazza e/o una strega. Credi che il montanaro sia per definizione uomo o è semplicemente una questione di pregiudizi?
Nient’affatto: tra le persone che conosco io in montagna i pochi superstiti di quella civiltà scomparsa sono proprio le donne. Forse la madre di Bruno è la vera “ultima montanara” della storia.
5. Abbiamo letto che il romanzo è in parte autobiografico, ma com’è che un timido come il protagonista e per riflesso forse come il suo scrittore, decide un giorno di scrivere e raccontarsi?
Un timido scrive romanzi, così non si capisce mai che cosa è vero e che cosa è inventato. Io non mi chiamo Pietro, non sono nato nel 1973 e non sono mai stato bambino a Grana, che per altro nemmeno esiste sulle mappe…
6. Nel libro c’è una bellissima rappresentazione dell’omo servadzo, un uomo antico che viveva nei boschi con capelli lunghi, barba, coperto di foglie che faceva il giro dei villaggi ad insegnare agli abitanti ad usare il caglio. È una leggenda delle nostre montagne o proviene da lontano, forse dal Nepal?
È una leggenda delle nostre montagne e si trova un po’ dappertutto, sia sulle Alpi che sugli Appennini. Omo servadzo in Val d’Aosta, selvadego in Trentino, e così via. È un uomo schivo, timoroso della civiltà, che vivendo nel bosco ne conosce i segreti, e certe volte li trasmette all’uomo civilizzato. Figura molto diversa dallo yeti che invece è, o era, probabilmente un primate, temuto dai montanari dell’Himalaya che l’hanno sterminato (storie popolari nepalesi parlano di vere e proprie battute di caccia allo yeti, e certi strani pezzi di cranio sono conservati nei villaggi come cimeli).
7. A Giovanni, il padre di Bruno, non sembra piacere la stagione invernale, dice che non è fatta per gli uomini e andava lasciata in pace, e come ‘la stagione della leggerezza doveva essere seguita da quella della gravità ovvero da quella del lavoro’. La giustificazione è solo nel disprezzo per gli sciatori, gli uomini che non faticano, o sono gli episodi della vita (in questo caso una tragedia personale) che influenzano le sue e le nostre scelte?
Una volta, e intendo nell’epoca dell’alpinismo classico, in montagna si andava d’estate. La montagna d’inverno era gelida e piena di neve e non c’era nessun motivo per andarci, fino all’invenzione dello sci di discesa e delle stazioni sciistiche. Siamo più o meno negli anni ’20 del Novecento: prima uno sport per ricchi e poi, nel dopoguerra, sempre più popolare, finché negli anni ’60-’70 diventa vero e proprio passatempo di massa. Intanto è nato anche l’alpinismo invernale, Bonatti è il suo campione, e la montagna d’inverno non è più un tabù, anzi. Ora conosco gente che mi dice: ma che ci vai a fare in montagna d’estate, che non si può sciare? Il padre di Pietro è affezionato alla filosofia di una volta e io con lui. Per altro quella filosofia è la stessa dei montanari, che d’estate salgono in alpeggio, d’inverno scendono in paese. Non si va in montagna d’inverno, ti direbbe la mamma di Bruno: ed è anche per aver rotto questa regola che Bruno fa la sua fine.
8. Nel libro scrivi che ognuno ha una “quota prediletta”, un paesaggio che lo rispecchia in montagna, chi il bosco, chi le pietraie, chi i pascoli. Qual è la tua? È la stessa del protagonista Pietro?

Paolo Cognetti
Sì, abito in una casa a 2000 metri e quella quota è più o meno il limite dei boschi (anche se con l’aumento delle temperature si sta alzando sempre più verso i 2500). Se esco di casa e vado in su, mi ritrovo in poco tempo nel mondo dei pascoli estivi, della neve che copre tutto per sette otto mesi l’anno, delle pietraie e dell’alta montagna. Se vado in giù, trovo i boschi e i paesi. Per me significa sempre scegliere tra la solitudine e i rapporti umani, vivo al confine tra queste due condizioni.
9. Bruno e Pietro hanno avuto entrambi padri che non comunicavano e nonostante entrambi volessero in un certo modo discostarsi da loro alla fine crescono seguendone i medesimi passi. La loro a tratti sembra qualcosa che va oltre l’amicizia, quasi una relazione amorosa, un’amicizia silenziosa e a tratti imbarazzata. Ma sembrano comunque dimostrarsi le cose importanti con gesti silenziosi. Cos’è per te allora l’amicizia, forse esserci nei momenti importanti?
Sì, una forma profonda di fiducia e di presenza. Sono contento che tu abbia riconosciuto l’imbarazzo, è quello dei solitari che si vergognano a ricevere gesti d’affetto. Tra Pietro e Bruno poi c’è una confidenza fisica: in due o tre momenti si toccano (questo per i montanari che conosco non si fa), dormono insieme in un letto, sono abbracciati in sella a una moto. E Pietro dice che in quei momenti lui si sente bene, si libera dell’imbarazzo che in quanto timido prova sempre con chiunque. Forse Pietro è innamorato di Bruno (una delle storie fondamentali per scrivere la mia è stata Brokeback Mountain) però, come in tanti misteri di questi due uomini, non mi è sembrato importante andarci a fondo, anzi mi è sembrato giusto lasciare che restasse un mistero.
10. Hai dichiarato che ti ritrovi nella figura di Pietro, sei anche tu un arrampicatore? L’episodio del volo alla prima arrampicata da primo è successo davvero?
Ho arrampicato tra i dieci e i diciott’anni. Ora peso quasi ottanta chili e sento che sono troppi quando riprovo a mettere le mani sulla roccia. Ma forse è solo che per arrampicare bisogna avere amici che arrampicano, io invece in montagna vado spesso da solo e l’arrampicata è rimasta una passione giovanile.
11. Le montagne sono il grande sfondo e protagoniste silenziose del libro. Quando Bruno e Pietro con gli amici nella loro baita discutono di come creare una piccola comunità autonoma dove poter vivere, Bruno riporta tutti alla realtà dicendo che non si può vivere di sola natura ma serve il cemento per far star su le case, il concime, la benzina. E ancora come la natura sia un’invenzione della gente di città. Credi che il termine natura sia semplicemente una cosa astratta, una nostra piccola fantasia che ci creiamo sognanti nei nostri salotti e che in fondo in montagna ci siano semplicemente cose materiali che possiamo usare o sfruttare: boschi, pascoli, torrenti e rocce?
Bruno dice a suo modo che “natura” è un concetto astratto, inventato dalla filosofia per definire tutto ciò che al mondo non è umano. Per chi vive in città è diventata una sorta di altrove (non pensi alla “natura” quando vedi un piccione su un marciapiede, o un’aiuola spartitraffico), e in modo molto ingenuo un cittadino si sente “nella natura” sia tra i campi coltivati che in un bosco, sia in riva a un lago artificiale che in un parco pubblico. Bruno dice poi che chi vive in montagna non ha nella sua testa il concetto di “natura”, perché senza il suo opposto (il concetto di “città”) non significa più niente. Su questo argomento una volta Walter Siti, cresciuto in campagna benché innamorato delle città, mi disse che dalle sue parti natura significava una cosa sola, il sesso delle donne. In ogni caso, è una parola che non mi piace e quando scrivo non la uso.
12. Scrivo per un blog d’alpinismo ed arrampicata, quindi l’ultima domanda è obbligatoria. Ho letto da qualche parte che hai una baita in montagna, ma oltre a vivere la montagna, sali anche le montagne alpinisticamente parlando?
Sono salito su diverse cime del Monte Rosa, mi sono legato in cordata, ho messo i ramponi, ho arrampicato su roccia e ghiaccio. È successo anni fa, forse lo farò ancora ma devo dire che in questi anni di vita in montagna l’alpinismo mi interessa pochissimo. Amo la sensazione di libertà che la montagna mi dà, l’immersione nell’ambiente selvatico e queste cose non le trovo su un ghiacciaio, legato ad altra gente, magari in fila dietro ad altre cordate, ma da solo in qualche vallone sperduto, risalendo un torrente o in cima a una montagna di 3000 metri, o meglio di 2900 così non ci va nessuno. Questo è il modo di Pietro e Bruno: ogni tanto arrampico su una cresta, ogni tanto scivolo giù per i nevai, e percorro i sentieri ma la parte davvero divertente comincia quando li abbandono e invento una strada mia. Non so se sia alpinismo, io lo chiamo “andare in montagna”.
In pianura mi sarei messo a ridere. Gli avrei risposto che non sapevo fare nulla, e che non gli sarei stato di alcun aiuto. Ma ero seduto su un muro in mezzo alla neve, davanti a un lago ghiacciato a duemila metri d’altezza. Avevo cominciato a provare un senso d’inevitabilità: per motivi che non conoscevo era lì che mio padre mi voleva portare, su quel pianoro battuto dalle slavine, sotto quella roccia strana, a lavorare a quel rudere insieme a quell’uomo.
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